martedì 24 giugno 2014

filosofeggiando di fotografia

Non sono daccordo su tutto quello che dice l'autore dell'articolo ma lo trovo interessante come spunto di riflessione.
DAL NON PENSIERO DI  CARTIER - BRESSON AL SILENZIO DI  EUGENE ATGET
LA FOTOGRAFIA COME METAFORA DI UNA UMANITA' SVUOTATA
 


Fotografare l’uomo è diverso dal dipingerlo. Nel dipinto sono contenuti il sentimento e la passione dell’artista, nella fotografia, invece, è il modello con il suo vissuto ad essere “intrappolato”. Questo non vuol significare che la fotografia sia un’espressione superficiale del mondo e del vissuto. La facilità sconcertante con la quale si può fotografare e l’inevitabile, anche se involontaria, autorità dei prodotti della macchina fotografica fa pensare ad un rapporto assai tenue con la conoscenza. Non si può negare che la fotografia ha dato un impulso enorme alle aspirazioni conoscitive della vista ampliando notevolmente il regno del visibile. Non c’è accordo sui modi in cui qualunque soggetto alla portata di una visione possa essere meglio conosciuto attraverso una fotografia e sulla misura in cui, per ottenere una buona fotografia, il fotografo abbia bisogno di sapere qualcosa su ciò che sta fotografando. Il fotografare è stato visto in due ottiche completamente diverse: o come lucido e preciso atto di conoscenza, d’intelligenza consapevole, o come modo d’incontro intuitivo, pre-intellettuale. A tal proposito le opinioni sono contrastanti, c’è chi come Nadar (uno dei padri della fotografia) parlando dei suoi ritratti diceva «Il ritratto che faccio meglio è quello della persona che conosco meglio», mentre il fotografo Avedon sosteneva l’esatto contrario affermando «I miei ritratti migliori sono quelli di persone che vedo per la prima volta al momento di fotografarle».
Nel novecento la generazione più anziana dei fotografi definiva la fotografia un eroico sforzo d’attenzione, una disciplina ascetica, una ricettività mistica del mondo, che impone al fotografo di passare per una nube d’inconsapevolezza; lo statuto mentale del fotografo, nell’atto in cui crea, è un vuoto. Egli si proietta in tutto ciò che vede e con tutto si identifica per meglio conoscerlo e sentirlo. Cartier - Bresson sosteneva «bisognerebbe pensare prima e dopo, mai mentre sì scatta». Ritiene, quindi, che il pensiero offuschi la trasparenza della consapevolezza del fotografo e violi l’autonomia di ciò che egli sta fotografando. Infatti, a tal proposito, sempre Bresson racconta che un giorno a Marsiglia “armato” solo della sua Leica, «vagavo tutto il giorno per le strade, sentendomi molto teso e pronto a buttarmi, deciso a “prendere in trappola” la vita, a fermare la vita nell’atto in cui era vissuta. Volevo soprattutto cogliere, nei limiti di un’unica fotografia, tutta l’essenza di una situazione che si stava svolgendo davanti ai miei occhi».
Abbiamo visto come il tempo e il soggetto siano fondamentali nella fotografia e come questi due elementi la differenzino dalla pittura, da tutto ciò non si può non mettere in evidenza il rapido sviluppo tecnologico dei mezzi fotografici: dai primi dagherrotipi, rapidamente cambiano le pellicole, le macchine, le ottiche e i procedimenti di stampa; le pose durano decimi di secondi e non più lunghi minuti. La fotografia ci mostra l’uomo, ci aiuta a studiarlo, e studiare l’uomo nella sua essenza più profonda significa indagare il suo patrimonio genetico, ma anche l’ambiente, l’apprendimento, l’educazione. Insomma, nell’uomo vive la grande meraviglia della sua libertà. Possiamo chiudere tutto questo in una camera oscura? Mi spiego, una fotografia ci può mostrare l’uomo, l’ambiente in cui vive, la sua educazione, il suo lavoro, per tornare alle parole di Bresson una fotografia può mostrarci “tutta l’essenza di una situazione” che si svolge davanti ai nostri occhi, ma con questo la fotografia cattura anche la libertà dell’uomo e il suo essere spirituale.
La fotografia assume un valore necrofilo quando i soggetti fotografati non sono più in vita, quante volte usiamo l’espressione “immortalare in una fotografia”? E’ forse la ricerca dell’eternità? O semplicemente un patto col diavolo? Certo alla sua nascita la fotografia non suscitò critiche favorevoli, Baudelaire a tal riguardo usa parole durissime: «… è venuta a formarsi… una nuova industria che non ha poco contribuito a raffermare la scempiaggine nella sua fede e a mandare in rovina quel che poteva ancora rimanere di divino nello spirito francese. Questa folla idolatrica postulava, ben s’intende, un ideale degno di essa e appropriato alla sua natura. In fatto di pittura e di statuaria, il credo di oggi della gente elevata, soprattutto in Francia è che l’arte non può essere se non la riproduzione della natura… Così un’industria che ci procurasse un risultato identico alla natura sarebbe l’arte assoluta. Un dio vendicatore ha esaudito i voti di codesta moltitudine. Daguerre fu il suo Messia. E allora ella disse: - Poiché la fotografia ci dà tutte le garanzie desiderate di esattezza (così credono, gli stolti!), l’arte è ben la fotografia -. Da quel momento l’immonda società si precipitò, come un sol Narciso, a contemplare sul metallo la sua immagine triviale… Qualche scrittore democratico ha dovuto intravedere in tutto ciò il mezzo a buon mercato per spandere nel popolo il disgusto per la storia e per la pittura… ».
Dovettero passare molti anni ancora prima che alla fotografia fosse riconosciuta la sua identità e il suo valore di arte autonoma. I fratelli Bragaglia (fotografi futuristi) giocarono un ruolo importante con le loro ricerche sul fotodinamismo, e sull’approccio scientifico, più che artistico, della fotografia. Le loro ricerche si dirigevano, secondo una moda diffusa dell’epoca, alla pseudo scienza della fotografia spiritica, basandosi su precedenti ricerche atropo-anatomiche ed effettive sperimentazioni bio-mediche. Lo stesso Anton Giulio Bragaglia nel 1914 pubblicò su “Humanitas” due testi dal titolo: La fotografia dell’invisibile e I fantasmi dei vivi e dei morti.  Ma dovettero passare ancora molti anni prima che il futurismo accettasse la fotografia.
Atget toglierà l’aura alla fotografia eliminando l’uomo e scoprendo il silenzio, il sogno, dove il manichino sottrae l’uomo dal fluire del tempo. Il tempo è eliminato, ma compare il silenzio. Il cosiddetto “tempo reale” della tecnologia mediatica così come il tempo accelerato della competizione economica globale sono tempi disumanizzati, astratti, inabitabili, dove l’elemento uomo è ridotto al metafisico manichino. Polverizzando, frammentando e svuotando di significato profondo la temporalità, si arriva a porre la condizione umana in uno stato permanente di crisi e alienazione. La cifra più eloquente di tal esito è data attualmente dalla precarietà artificiale, socialmente prodotta, in cui tutti siamo gettati, cosicché le persone sono esposte al pericolo di divenire improvvisamente irrilevanti, superflue, esuberi o rifiuti umani di una società che non vede più l’umanità in ognuno e in tutti.

 articolo tratto da CG Magazine by Antonio Iaccio