Non sono daccordo su tutto quello che dice l'autore dell'articolo ma lo trovo interessante come spunto di riflessione.
DAL NON
PENSIERO DI CARTIER - BRESSON AL SILENZIO DI EUGENE
ATGET
LA FOTOGRAFIA COME METAFORA DI UNA UMANITA' SVUOTATA
Fotografare l’uomo è diverso dal dipingerlo. Nel dipinto sono contenuti il sentimento e la passione dell’artista, nella fotografia, invece, è il modello con il suo vissuto ad essere “intrappolato”. Questo non vuol significare che la fotografia sia un’espressione superficiale del mondo e del vissuto. La facilità sconcertante con la quale si può fotografare e l’inevitabile, anche se involontaria, autorità dei prodotti della macchina fotografica fa pensare ad un rapporto assai tenue con la conoscenza. Non si può negare che la fotografia ha dato un impulso enorme alle aspirazioni conoscitive della vista ampliando notevolmente il regno del visibile. Non c’è accordo sui modi in cui qualunque soggetto alla portata di una visione possa essere meglio conosciuto attraverso una fotografia e sulla misura in cui, per ottenere una buona fotografia, il fotografo abbia bisogno di sapere qualcosa su ciò che sta fotografando. Il fotografare è stato visto in due ottiche completamente diverse: o come lucido e preciso atto di conoscenza, d’intelligenza consapevole, o come modo d’incontro intuitivo, pre-intellettuale. A tal proposito le opinioni sono contrastanti, c’è chi come Nadar (uno dei padri della fotografia) parlando dei suoi ritratti diceva «Il ritratto che faccio meglio è quello della persona che conosco meglio», mentre il fotografo Avedon sosteneva l’esatto contrario affermando «I miei ritratti migliori sono quelli di persone che vedo per la prima volta al momento di fotografarle».
LA FOTOGRAFIA COME METAFORA DI UNA UMANITA' SVUOTATA
Fotografare l’uomo è diverso dal dipingerlo. Nel dipinto sono contenuti il sentimento e la passione dell’artista, nella fotografia, invece, è il modello con il suo vissuto ad essere “intrappolato”. Questo non vuol significare che la fotografia sia un’espressione superficiale del mondo e del vissuto. La facilità sconcertante con la quale si può fotografare e l’inevitabile, anche se involontaria, autorità dei prodotti della macchina fotografica fa pensare ad un rapporto assai tenue con la conoscenza. Non si può negare che la fotografia ha dato un impulso enorme alle aspirazioni conoscitive della vista ampliando notevolmente il regno del visibile. Non c’è accordo sui modi in cui qualunque soggetto alla portata di una visione possa essere meglio conosciuto attraverso una fotografia e sulla misura in cui, per ottenere una buona fotografia, il fotografo abbia bisogno di sapere qualcosa su ciò che sta fotografando. Il fotografare è stato visto in due ottiche completamente diverse: o come lucido e preciso atto di conoscenza, d’intelligenza consapevole, o come modo d’incontro intuitivo, pre-intellettuale. A tal proposito le opinioni sono contrastanti, c’è chi come Nadar (uno dei padri della fotografia) parlando dei suoi ritratti diceva «Il ritratto che faccio meglio è quello della persona che conosco meglio», mentre il fotografo Avedon sosteneva l’esatto contrario affermando «I miei ritratti migliori sono quelli di persone che vedo per la prima volta al momento di fotografarle».
Nel
novecento la generazione più anziana dei fotografi definiva la
fotografia un eroico sforzo d’attenzione, una disciplina ascetica,
una ricettività mistica del mondo, che impone al fotografo di
passare per una nube d’inconsapevolezza; lo statuto mentale del
fotografo, nell’atto in cui crea, è un vuoto. Egli si proietta in
tutto ciò che vede e con tutto si identifica per meglio conoscerlo e
sentirlo. Cartier - Bresson sosteneva
«bisognerebbe
pensare prima e dopo, mai mentre sì scatta».
Ritiene,
quindi, che il pensiero offuschi la trasparenza della consapevolezza
del fotografo e violi l’autonomia di ciò che egli sta fotografando.
Infatti, a tal proposito, sempre Bresson racconta che un giorno a
Marsiglia “armato” solo della sua Leica,
«vagavo
tutto il giorno per le strade, sentendomi molto teso e pronto a
buttarmi, deciso a “prendere in trappola” la vita, a fermare la vita
nell’atto in cui era vissuta. Volevo soprattutto cogliere, nei
limiti di un’unica fotografia, tutta l’essenza di una situazione che
si stava svolgendo davanti ai miei occhi».
Abbiamo visto come il tempo e il soggetto siano fondamentali nella
fotografia e come questi due elementi la differenzino dalla pittura,
da tutto ciò non si può non mettere in evidenza il rapido sviluppo
tecnologico dei mezzi fotografici: dai primi dagherrotipi,
rapidamente cambiano le pellicole, le macchine, le ottiche e i
procedimenti di stampa; le pose durano decimi di secondi e non più
lunghi minuti. La fotografia ci mostra l’uomo, ci aiuta a studiarlo,
e studiare l’uomo nella sua essenza più profonda significa indagare
il suo patrimonio genetico, ma anche l’ambiente, l’apprendimento,
l’educazione. Insomma, nell’uomo vive la grande meraviglia della sua
libertà. Possiamo chiudere tutto questo in una camera oscura? Mi
spiego, una fotografia ci può mostrare l’uomo, l’ambiente in cui
vive, la sua educazione, il suo lavoro, per tornare alle parole di
Bresson una fotografia può mostrarci “tutta l’essenza di una
situazione” che si svolge davanti ai nostri occhi, ma con questo la
fotografia cattura anche la libertà dell’uomo e il suo essere
spirituale.
La
fotografia assume un valore necrofilo quando i soggetti fotografati
non sono più in vita, quante volte usiamo l’espressione “immortalare
in una fotografia”? E’ forse la ricerca dell’eternità? O
semplicemente un patto col diavolo? Certo alla sua nascita la
fotografia non suscitò critiche favorevoli, Baudelaire a tal
riguardo usa parole durissime: «…
è venuta a formarsi… una nuova industria che non ha poco contribuito
a raffermare la scempiaggine nella sua fede e a mandare in rovina
quel che poteva ancora rimanere di divino nello spirito francese.
Questa folla idolatrica postulava, ben s’intende, un ideale degno di
essa e appropriato alla sua natura. In fatto di pittura e di
statuaria, il credo di oggi della gente elevata, soprattutto in
Francia è che l’arte non può essere se non la riproduzione della
natura… Così un’industria che ci procurasse un risultato identico
alla natura sarebbe l’arte assoluta. Un dio vendicatore ha esaudito
i voti di codesta moltitudine. Daguerre fu il suo Messia. E allora
ella disse: - Poiché la fotografia ci dà tutte le garanzie
desiderate di esattezza (così credono, gli stolti!), l’arte è ben la
fotografia -. Da quel momento l’immonda società si precipitò, come
un sol Narciso, a contemplare sul metallo la sua immagine triviale…
Qualche scrittore democratico ha dovuto intravedere in tutto ciò il
mezzo a buon mercato per spandere nel popolo il disgusto per la
storia e per la pittura… ».
Dovettero passare molti
anni ancora prima che alla fotografia fosse riconosciuta la sua
identità e il suo valore di arte autonoma. I fratelli Bragaglia
(fotografi futuristi) giocarono un ruolo importante con le loro
ricerche sul fotodinamismo, e sull’approccio scientifico, più che
artistico, della fotografia. Le loro ricerche si dirigevano, secondo
una moda diffusa dell’epoca, alla pseudo scienza della fotografia
spiritica, basandosi su precedenti ricerche atropo-anatomiche ed
effettive sperimentazioni bio-mediche. Lo stesso Anton Giulio
Bragaglia nel 1914 pubblicò su “Humanitas” due testi dal titolo:
La fotografia dell’invisibile e I fantasmi dei vivi e dei
morti. Ma dovettero passare ancora molti anni prima che il
futurismo accettasse la fotografia.
Atget toglierà l’aura
alla fotografia eliminando l’uomo e scoprendo il silenzio, il sogno,
dove il manichino sottrae l’uomo dal fluire del tempo. Il tempo è
eliminato, ma compare il silenzio. Il cosiddetto “tempo reale” della
tecnologia mediatica così come il tempo accelerato della
competizione economica globale sono tempi disumanizzati, astratti,
inabitabili, dove l’elemento uomo è ridotto al metafisico manichino.
Polverizzando, frammentando e svuotando di significato profondo la
temporalità, si arriva a porre la condizione umana in uno stato
permanente di crisi e alienazione. La cifra più eloquente di tal
esito è data attualmente dalla precarietà artificiale, socialmente
prodotta, in cui tutti siamo gettati, cosicché le persone sono
esposte al pericolo di divenire improvvisamente irrilevanti,
superflue, esuberi o rifiuti umani di una società che non vede più
l’umanità in ognuno e in tutti.
articolo tratto da CG Magazine by Antonio Iaccio